Rohatsu 2023

Questa è la trascrizione del discorso che ho tenuto alla Sangha di Zenways in occasione del Rohatsu.

Buonasera e benvenuti al Rohatsu di quest’anno! La celebrazione del risveglio del Buddha, della sua illuminazione.

Una cosa che mi è apparsa molto chiara mentre facevo delle ricerche sul Rohatsu è stata la profonda determinazione del Buddha a voler raggiungere la liberazione, a voler mettere fine alla sua ricerca, a voler porre fine alla sofferenza. Per questo motivo, nella parte finale del suo percorso, si sedette e decise di prendere posto sotto un albero di fico, divenuto poi famoso come l’albero della bodhi (l’albero del risveglio). Lì fece voto di non muoversi finché non fosse completamente libero — e così fece. Ma come arrivò a quel punto? E, soprattutto, perché la storia di quella notte di pratica è ancora così rilevante e fonte d’ispirazione per noi, più di venticinque secoli dopo?

Penso che più o meno tutti conosciamo la storia di Siddhartha Gautama, così si chiamava prima di diventare il Buddha, l’illuminato. La storia che lo portò sotto l’albero della bodhi.

Siddhartha Gautama era un principe, aveva praticamente tutto ciò che desiderava, ma sentiva un senso d’insoddisfazione, la sensazione che mancasse qualcosa — soprattutto dopo aver visto ciò che oggi conosciamo come le quattro visioni del Buddha. Vide un uomo anziano, una persona malata, un cadavere e un cercatore spirituale. Queste visioni lo fecero riflettere profondamente su come stanno davvero le cose. Poteva avere tutti i piaceri e i lussi possibili, ma quella non era tutta la verità. Le persone invecchiano, si ammalano e muoiono. E la visione del cercatore spirituale deve aver acceso in lui quella curiosità genuina che lo mise sulla strada della liberazione: quel cercatore sembrava radicato in un tipo diverso di felicità, una sorta di appagamento profondo. Siddhartha voleva scoprire di cosa si trattasse.

Iniziò quindi il suo percorso spirituale. Praticò la meditazione, poi diventò un asceta, digiunando e trascurando il corpo. Tuttavia, nulla sembrava offrirgli quel senso di appagamento, quel “sentirsi arrivato” che aveva percepito anni prima nel cercatore spirituale.

Ma forse è proprio durante il periodo ascetico che avvenne l’episodio di svolta: vide una persona che suonava uno strumento a tre corde. Una corda era troppo tesa e si spezzava, un’altra era troppo lenta e non emetteva alcun suono, la terza — quella di mezzo — sembrava perfettamente accordata, capace di produrre un suono armonioso. Siddhartha ebbe un’intuizione profonda: gli estremi non sono la risposta. Né i lussi né l’ascetismo estremo avevano portato alla liberazione. Da quel momento, iniziò a percorrere la Via di Mezzo, abbandonò l’ascetismo, riprese a nutrirsi, a prendersi cura del corpo e, appena riacquistate le forze, raggiunse l’albero della bodhi dove, come già detto, si sedette determinato a portare a termine la sua ricerca.

Potremmo parlare a lungo della sofferenza, della liberazione e di cosa abbia realizzato Siddhartha. Tuttavia, vorrei soffermarmi su ciò che accadde, secondo la tradizione, quella notte di meditazione sotto l’albero della bodhi.

Per me, ciò che è davvero rilevante per noi questa sera è la battaglia di Siddhartha con Mara durante la notte. Chi è Mara? Mara è una figura mitologica, un demone, il “cattivo” della storia. Rappresenta tutte quelle formazioni mentaliche, credo, tutti noi sperimentiamo e che ci allontanano dal vedere la realtà per com’è, qui e ora. Queste formazioni mentali creano in noi dei pattern, delle abitudini, che possono farci sentire intrappolati in qualcosa che sembra molto reale. Il primo compito per noi praticanti è vederle chiaramente, riconoscerle, notare come influenzano la nostra esperienza. Possiamo davvero vedere le cose per come sono quando siamo sotto l’effetto di queste formazioni mentali?

Sembra che Mara abbia tentato Siddhartha in varie forme che ci sono tutte familiari: la paura (potremmo aggiungere ansia e preoccupazioni), il desiderio (volere le cose diverse da come sono), e il senso di indegnità (“Chi pensi di essere per meritare la liberazione?”).

Siddhartha resta seduto, non si muove, ma sembra avere una certa difficoltà proprio con il senso di indegnità. E qui, compie il gesto più potente: tocca la terra. Non cerca di elaborare le cose mentalmente, non si affida ai pensieri o alle emozioni per combattere queste forze interiori. Ma si ancora alla realtà, al momento presente. Tocca la Terra come testimone e riconosce di essere degno, di poter aprirsi alla verità. Realizza che lui è la terra, che non c’è separazione.

La nostra opportunità questa sera è praticare con il nostro Mara. Anche noi abbiamo le nostre resistenze, le nostre difficoltà, e possiamo avere momenti difficili proprio come Siddhartha. Anche noi possiamo toccare la terra, simbolicamente o concretamente. Possiamo tornare alla realtà del momento, al respiro, al corpo, al qui e ora. Le formazioni mentali sono solo fenomeni che sorgono e passano. Non hanno alcuna verità ultima in loro. Più restiamo con le cose così come sono, senza farci trascinare via, più queste formazioni perdono forza, si dissolvono, e la realtà diventa più chiara. Meno filtri = più verità.

Siddhartha ha continuato a sedere, senza essere scosso, con la terra come testimone della sua degnità. Più pratichiamo così, più diventiamo stabili, radicati.

E se il nostro Mara questa sera fosse qualcosa di apparentemente banale, come i rumori provenienti dal dojo attraverso il computer durante la meditazione? Possiamo semplicemente sedere con quei suoni. Senza muoverci, abbracciandoli, vedendoli per ciò che sono, senza attaccarci a idee, giudizi, simpatie o antipatie.

Quindi, come vogliamo trascorrere questa notte di pratica insieme? O, in fondo, come vogliamo trascorrere la nostra vita? Possiamo fare del nostro meglio per radicarci nella realtà del momento presente e lasciar andare la mente speculativa, i pensieri accattivanti, le paure, i sensi di inadeguatezza. Non possiamo dare una risposta definitiva su cosa sia davvero questa esperienza misteriosa che chiamiamo vita, ma possiamo vivere pienamente questo momento così com’è.

Un personaggio importante nella storia dell’illuminazione del Buddha è una ragazza chiamata Sujata. Sujata offrì gentilmente del riso con miele a Siddhartha prima che iniziasse la sua meditazione. Questa sera faremo lo stesso, simbolicamente e come buon auspicio, cammineremo lo stesso sentiero del Buddha cominciando con un po’ di riso con miele. Al dojo credo che sia già pronto, per chi è a casa, possiamo prenderci un momento per fare altrettanto. Buona notte di pratica!

Quando torniamo, parlerò brevemente di cosa aspettarci dalla pratica di questa sera: zazen, kinhin, sanzen, keisaku e pause tè.

Tra poco inizieremo la nostra pratica insieme. Ci saranno momenti di meditazione seduta alternati a momenti di meditazione camminata. Più tardi offrirò il Sanzen, un colloquio privato sulla pratica. Metterò il mio contatto Skype nella chat. Per chi è al dojo, abbiamo un dispositivo connesso nella stanza del sanzen. Per chi è online, basterà mandare un messaggio o una chiamata persa su Skype e richiamerò secondo l’ordine di arrivo. Mattias, il nostro Jikijitsu di questa sera, ci guiderà attraverso tutte le fasi, comprese due pause tè.

Al dojo offriremo anche il Keisaku. Che cos’è il keisaku? Lo vedete sul tavolo davanti all’Enso. È il “bastone del risveglio”. Anche in questo caso, Mattias mostrerà come riceverlo. Una cosa importante da dire: il keisaku è uno strumento di sostegno, può aiutare a sciogliere tensioni fisiche o energetiche, oppure a svegliarci se ci stiamo assopendo. Viene offerto con totale compassione, come un atto d’amore per sostenere la pratica. Non ha nulla a che fare con la punizione o — peggio ancora — con l’infliggere dolore. È l’incontro tra chi lo offre e chi lo riceve, un’unica cosa. E ovviamente, è completamente facoltativo. Mattias ora spiegherà come fare per riceverlo.

Ancora una volta, vi auguro una splendida notte di pratica!