Pedali, Koan e il Silenzio dell’Alba

C’è qualcosa di speciale nell’andare in bici prima dell’alba—quando le strade sono ancora mezze addormentate e perfino il vento non ha ancora deciso da che parte soffiare. Niente traffico, nessuna voce, solo il sussurro ritmico delle gomme sull’asfalto e qualche coniglio spaventato che si infila nella siepe.

Ho preso l’abitudine di uscire in bici al buio questo inverno. È semplicemente ipnotico.

Lì fuori, prima che il mondo degli umani cominci a muoversi, tutto sembra un koan.

Un koan, nello Zen, è una domanda a cui non si può rispondere con la logica. Serve a mandare in corto circuito la mente. Tipo: Qual è il suono di una sola mano che applaude? Alle cinque del mattino, mentre salgo una piccola collina con le dita gelate e le gambe ancora incerte, all’improvviso capisco: la domanda non è il punto.

La strada non chiede perché. Semplicemente sale. I rapporti non discutono il loro scopo. Girano. E io—beh, respiro, spingo, ascolto gli uccelli che si svegliano, e dimentico quello che pensavo di dover capire.

In quei primi minuti dorati, quando il cielo passa dall’acciaio al color pesca, qualcosa si quieta. Non c’è pubblico, nessun segmento da battere, solo un vuoto strano e accogliente. Non il vuoto che manca di qualcosa, ma quello che lascia entrare la luce.

Da qualche parte tra due paesini che ora non ricordo, mi è tornato in mente un koan:
“Senza parlare, senza tacere—come esprimi la verità?”
Le gambe continuano a girare. Forse è quella la risposta. O forse non importa.

Torno a casa due ore dopo, infreddolito, felice e più leggero.
Le domande sono ancora lì, libere, non più da risolvere. Posso godermi la loro presenza.
Non hanno fretta, loro non disturbano me ed io non disturbo loro. Siamo tutti liberi di essere.

Il caffè ha un altro sapore dopo i koan e l’alba.