Un’altra cosa che ho imparato in questi anni è l’abbondanza e la libertà di sperimentare. Non c’è limite.
Lo pensavo riferito ai viaggi, alle letture, alla cucina. Poi l’ho capito davvero nella ripetizione.
Faccio molte cose in maniera ciclica, quasi rituale. Mi sveglio presto, preparo lo stesso porridge, pedalo più o meno sulle stesse strade, pratico lo zazen sullo stesso cuscino. Le giornate si assomigliano. Ma io no.
Nel ripetere scopro che nulla è davvero uguale.
La forma si ripete, ma l’attitudine cambia.
Cambia lo sguardo. Cambia il corpo. Cambia il respiro.
E allora non è più monotonia. È pratica.
Ogni gesto, anche il più semplice, può diventare uno specchio.
Ogni salita in bici, ogni mattina lenta, ogni silenzio in zazen diventa un modo per osservarmi da un altro punto di vista.
È come se la ripetizione scavasse un solco, non per chiudere ma per aprire. Aprire lo spazio della presenza.
La libertà non è nel fare sempre cose nuove.
È nel vedere il nuovo in ciò che si ripete.
Per questo lo Zen, per me, non è stare fermi.
È esserci, mentre si fa.
Anche in salita, col cuore a mille e le gambe che bruciano.
Torno dai miei giri in bicicletta quasi sempre allo stesso orario. Le nove.
Metto via la bici, tolgo il casco, faccio colazione.
Da lì ricomincia una routine di cose — sempre uguali e sempre diverse.
Rispondere a un’email, sistemare la casa, ascoltare una voce familiare alla radio, fare la lavatrice, stendere i panni.
Un po’ come il movimento del sole, della luna, della terra stessa.
Sempre uguali all’apparenza, ma mai identici.
Impossibile avere due albe o due tramonti uguali.
E così mi accorgo che, nella ripetizione, c’è vita che si rinnova.
Ogni giorno, la stessa strada. Ogni giorno, un passo nuovo.
A volte, però, sento anche il bisogno di perdermi.
Di farmi travolgere da qualcosa di completamente nuovo.
Viaggiare.
Camminare in una città sconosciuta, osservare i volti, annusare l’aria, ascoltare lingue che non capisco.
Senza pensare a niente.
Solo essere lì, intero, con tutto quello che arriva.
Anche questo, in fondo, è pratica.
Non più la profondità del solco tracciato ogni giorno, ma l’apertura nuda, senza appigli.
Un altro modo di stare.
Viaggiare e conoscere cose completamente nuove, o ripetere la routine ogni giorno, mi fa riflettere sul concetto di casa.
Dov’è casa, veramente?
È la casa fisica dove mi alzo ogni mattina, mangio, lavoro e mi corico la sera?
È quella in cui sono cresciuto da piccolo?
È la nazione da cui vengo?
Oppure casa è qualcosa di più sottile, qualcosa che si muove con me?
Quando sono per strada in sella alla bici, non sono a casa lì?
Quando cammino per le strade di Dubai o New York, quanto lontano da casa sono veramente?
Per me casa è quel senso di presenza che posso portare ovunque.
Il luogo in cui abito me stesso, qualunque sia il punto del mondo in cui mi trovo.
La casa, come la intendo, non ha bisogno di un grande giardino o di mobili di mogano.
Ha più bisogno di una mente limpida e di un cuore aperto.
E, certo, anche di una cura per ciò che mangio, come lo preparo, come lo vivo.
Cosa te ne fai di una facciata decorata, se dentro non sai starci?
Alla fine, casa è dove smetti di cercare.
E cominci semplicemente a stare.
Dentro e fuori di noi, senza separazione.
Qualsiasi cosa sia, in qualsiasi posto ci si trovi — è casa.
Non un luogo fisso, ma uno stato d’essere.
