Sono molto felice di parlare con voi questa sera, 27 novembre. Tra tre giorni, il 30 novembre, sarebbe stato il compleanno di mia madre: avrebbe compiuto 74 anni. È morta alla fine di settembre di quest’anno.
In questo incontro, vorrei condividere la mia esperienza con le circostanze difficili e la pratica dello Zen. Spero che possa essere utile a tutti noi, perché credo davvero che la nostra pratica possa “fiorire” proprio nei momenti difficili.
Una cosa che ho compreso fin dall’inizio della pratica Zen è che essa è un impegno costante, 24 ore su 24. Siamo invitati a praticare in tutte le circostanze, in tutte le situazioni, in ogni momento della nostra vita. Naturalmente esiste la pratica formale — lo Zazen, la meditazione seduta; il Kinhin, la meditazione camminata; la pratica dei Koan, le Diadi — ma poi c’è la nostra vita quotidiana. Dobbiamo preparare la colazione, lavare i piatti, lavorare, occuparci della famiglia, goderci le vacanze, vivere esperienze bellissime e affrontare momenti sfidanti. In ognuno di questi momenti possiamo approfondire la nostra pratica, tornare alla sorgente di tutte le cose, vedere chiaramente l’impermanenza e riconoscere l’origine della sofferenza.
Praticare Zen significa restare con le cose così come sono. È vedere che non c’è nessun altro luogo dove andare se non il qui e ora. Potremmo dire che uno degli aspetti fondamentali della pratica consiste proprio nell’allenarsi ad allinearsi totalmente con la realtà del momento presente. Totalmente. Nessuna divisione, nessuna separazione. In realtà, siamo sempre già allineati con il presente, sia quando lo giudichiamo piacevole che quando lo sentiamo difficile. Tuttavia, la mente crea facilmente una frattura e si ribella a ciò che è. Ed è proprio lì che nasce la sofferenza.
Con la pratica, impariamo a vedere chiaramente che non c’è nessun altro posto in cui andare. Possiamo solo partecipare pienamente alla vita, così com’è, momento dopo momento. In questa partecipazione totale, la sofferenza svanisce e la vita accade semplicemente… si manifesta, non filtrata dalle preferenze o dalle avversioni.
In Italia, tradizionalmente, quando una persona muore, il corpo viene tenuto in casa fino al giorno del funerale. Così, il corpo di mia madre è rimasto nella sua casa per due giorni prima della cerimonia. In quei due giorni mi sono ritrovato più volte a stare in piedi di fronte al suo corpo, dentro la bara. La stessa persona con cui avevo parlato solo il giorno prima, poche ore prima, in realtà.
Mentre stavo lì, davanti a lei, non potevo fare a meno di osservare la mia mente, che oscillava tra l’incredulità, la non accettazione, il desiderio che le cose fossero diverse… e la piena presenza a quello che stava accadendo, inclusi il dolore, il rifiuto, la tristezza. Ho cercato semplicemente di non aggrapparmi a nessuna di queste emozioni. Le emozioni erano presenti, ho cercato di lasciar loro spazio, senza fuggire, senza fingere che non ci fossero. In quei momenti, ciò che mi è stato di grande aiuto è stato restare con la fisicità di quelle emozioni, percepirle nel corpo piuttosto che nella mente.
In quei giorni — ma anche oggi — mi sono sentito fortunato ad avere lo Zen nella mia vita. Una pratica, una direzione, una prospettiva diversa. Non una prospettiva fissa, ma uno sguardo chiaro sulla sorgente di tutte le cose, sull’impermanenza. Uno sguardo chiaro su questa impossibilità di trattenere, manipolare, distrarsi per non affrontare ciò che non vogliamo vedere o sentire.
La pratica continua in ogni circostanza e può davvero sostenerci nei momenti difficili. Almeno, questo è ciò che è accaduto per me. Non esiste un momento in cui posso dire: “Adesso smetto di praticare”, oppure: “Riprenderò quando le cose andranno meglio”. Non è possibile. Viviamo la vita che ci è data da vivere, facciamo esperienza di ciò che ci è dato da sperimentare. Non possiamo scegliere solo ciò che ci piace. Quando smettiamo di separarci dalla realtà così com’è, smettiamo anche di soffrire.
L’essenza della nostra pratica è proprio questa: non scegliere, non rifiutare. Vedere ogni momento come unico e completo. Non è difficile trovare questa prospettiva se smettiamo di aggrapparci, anche allo Zen stesso. Anche la pratica è solo un mezzo, una direzione verso l’inafferrabile.
I momenti difficili possono essere terreno fertile per la nostra pratica. Ci aiutano ad allinearci con la realtà e a scoprire quel luogo in cui le cose sono, semplicemente, “ok”. Vedere chiaramente l’origine della sofferenza, sviluppare la capacità di non essere trascinati dagli eventi. E ancora una volta, ciò che aiuta davvero è restare con la fisicità del momento, sentire nel corpo ciò che sta accadendo.
Il Buddha lo ha detto chiaramente nelle prime due Nobili Verità: la vita è sofferenza e la sofferenza nasce dal non accettare le cose così come sono. Questo non significa che dobbiamo restare passivi davanti alle ingiustizie o a ciò che possiamo cambiare. Tutt’altro. Ma lottare contro ciò che è già accaduto, contro la realtà così com’è… crea sofferenza.
Quando ero davanti al corpo di mia madre, non era facile accettare, ma sapevo chiaramente che l’unico modo per attraversare quel momento era accettarlo completamente. Riposare nella realtà così com’era. Io ero quel momento. Non c’era nulla da fare per cambiarlo.
La terza Nobile Verità dice che la sofferenza termina quando smettiamo di volere che le cose siano diverse da ciò che sono. Quando entriamo in intimità con la causa della sofferenza, possiamo incontrare quel luogo in cui la sofferenza non c’è. Riconoscere la sofferenza quando appare, familiarizzare con i nostri impulsi, pensieri, illusioni, e vedere dove ci portano. In quel riconoscimento, coltiviamo le nostre virtù. Riconosciamo sia la nostra Natura di Buddha che le nostre illusioni. E vediamo chiaramente come queste ultime possano diventare la nostra principale fonte di sofferenza.
Il Buddha ci ha lasciato l’Ottuplice Sentiero per sviluppare comprensione, saggezza e azione consapevole. Lo Zen, in aggiunta, ci offre gli insegnamenti di tutti gli antenati e, per noi, la guida di Shinzan Roshi e Daizan Roshi. Questi insegnamenti ci aiutano a guarire quella sensazione di separazione che spesso viviamo. Come dice spesso Daizan: “quel senso di piccolo me contro il grande universo là fuori”. In realtà, non c’è un piccolo me e un grande universo. C’è questo grande Uno, questa energia in movimento, questo organismo vivente di cui facciamo parte.
Non ho dubbi che mia madre sia morta. La persona con cui parlavo fino a poco tempo fa non è più viva. Eppure, con la sua morte ho cominciato a contemplare: che cos’è davvero la vita e la morte? È davvero così netta la separazione come ci sembra? Questa domanda semplice può forse condurci verso quel luogo in cui la sofferenza scompare? Posso davvero riposare in uno spazio dove vedo chiaramente che mia madre è morta… e allo stesso tempo non è morta? La contemplazione continua…
Mi scuso se il tema di questa sera può sembrare pesante, ma ho sentito fosse una buona occasione per ricordare mia madre, a tre giorni dal suo compleanno. E, spero, che parlando della mia esperienza, abbia potuto ricordare a tutti noi quanto le circostanze difficili siano un terreno molto fertile per la pratica, per vedere chiaramente, per liberarci dalla mente che afferra.
Ora faremo un po’ di meditazione camminata e un po’ di meditazione seduta. Possiamo usare questo tempo per notare come le cose semplicemente nascono e svaniscono, appaiono e scompaiono. Come ogni momento sia completo in sé, indipendentemente da ciò che la nostra mente ci racconta. I pensieri nascono e poi muoiono, le esperienze sorgono e svaniscono, istante dopo istante. Cerchiamo solo di stare con tutto ciò, senza farci trascinare o distrarre. Solo osservando. Solo restando con le cose così come sono, momento dopo momento. Tutto è in questo osservare, nella pazienza, nella determinazione, nella resilienza a restare, stabili e morbidi allo stesso tempo. E, se ci accorgiamo di essere distratti o sballottati… semplicemente torniamo al corpo, alle sensazioni fisiche di questo momento. Questo ci aiuterà a stabilizzare la mente e a tornare, di nuovo, all’osservazione, all’ascolto profondo, al riconoscimento intimo delle cause della nostra sofferenza.
