La mia esperienza dopo un pò di anni di pratica Zen

I. La caduta dell’io

In questi anni di investigazione, meditazione, silenzio e osservazione, qualcosa ha cominciato a incrinarsi.

Non è stato un crollo improvviso, ma uno sgretolarsi lento, come di una diga che si consuma goccia dopo goccia.

Ho iniziato a vedere che ciò che chiamavo “io” non era mai stato davvero lì.

Una costruzione. Un’abitudine. Una voce nella testa che dice “questo sono io”, senza che nessuno la metta in dubbio.

Il mio incaponirmi, il mio difendermi, il mio voler avere ragione — tutto questo aveva il sapore della confusione.

Aveva qualcosa di stonato, quasi di corrotto.

Come se stessi cercando di tenere in piedi una casa fatta di nebbia.

E così, le certezze hanno iniziato a cadere.

Ciò in cui credevo non poteva più reggere.

Non c’era una struttura solida, niente di fisso.

E la cosa più sorprendente è che, quando tutto è crollato… non è arrivata la paura.

È arrivata la libertà.

II. Il vuoto che contiene ogni cosa

Da quel vuoto, da quello spazio senza appigli, è emersa una consapevolezza diversa.

Non c’è un “io” separato dal resto. Mai esistito.

Il mio respiro è aria del mondo.

Il mio cuore batte al ritmo dell’universo.

Il mio corpo è fatto della stessa sostanza delle stelle.

La mia esperienza — unica, viva, autentica — non è “mia”.

È solo un riflesso momentaneo, un’espressione del tutto.

Un’onda del mare. Presente per un attimo, eppure mai disgiunta dall’acqua.

Non sono mai nato, e in un certo senso, non morirò.

Non perché io sia eterno, ma perché non sono mai stato davvero separato.

Tutto quello che pensavo di essere si dissolve, e ciò che resta è apertura.

Un silenzio che non è vuoto, ma pieno di vita.

III. Intimità con l’attimo

E così ho imparato — sto imparando — a vivere in modo diverso.

A fare una cosa alla volta.

A diventare intimo con ciò che faccio.

Quando sono presente, profondamente presente, anche le azioni più semplici brillano di chiarezza.

Tagliare una carota. Ascoltare una voce. Sentire il vento sulla pelle.

Sono atti pieni, completi, infiniti.

Dove sono, è sempre casa.

Non nel passato, non nel futuro, non nei pensieri che rincorrono un’idea di me.

Casa è questo istante.

E ogni volta che me ne vado — perché me ne vado spesso — posso sempre tornare.

Non è sempre facile. Le abitudini mentali sono radicate.

Mi portano via, mi fanno disconnettere, mi fanno credere che ci sia qualcosa da raggiungere altrove.

Ma ogni volta che torno, anche solo per un secondo, è come se tutto si riallineasse.

Un passo. Un respiro. Un istante intero.

Non c’è nulla da difendere. Nulla da raggiungere. Nulla da possedere.

Solo da essere.

Intimi e connessi con ciò che è.

IV. Attualizzare la realizzazione

Una cosa è vedere.

Un’altra è vivere ciò che si è visto.

La realizzazione può arrivare come uno squarcio improvviso, come una vertigine limpida:

non c’è nessuno qui, solo questo.

Solo silenzio. Solo flusso. Solo vita.

Ma poi la mente ritorna. Le abitudini ritornano.

Il corpo si contrae. Il passato bussa.

E allora inizia il vero lavoro: non quello dell’illuminazione, ma quello dell’integrazione.

Della presenza umile, quotidiana, viva.

Attualizzare la realizzazione è tornare, mille volte al giorno, a ciò che è.

È vivere ciò che si è visto non nei pensieri, ma nei gesti.

Nel modo in cui ascolto.

Nel modo in cui rispondo.

Nel modo in cui poso una tazza sul tavolo o guardo un estraneo negli occhi.

È imparare la pazienza.

È vedere che non si può forzare nulla, né accelerare il tempo della consapevolezza.

Una cosa alla volta.

Un passo dopo l’altro.

Essere intimo con ciò che c’è — anche se ciò che c’è è confusione, o stanchezza, o fastidio.

La pratica non è perfezione.

È ricordare, ogni giorno, ogni istante, che non c’è nulla da sistemare.

Solo da essere, in connessione.

Con ciò che faccio.

Con ciò che sono.

Con ciò che è.

Epilogo: Oltre le credenze

Posso dire di aver creduto molte cose, in passato.

In me stesso. Negli altri. Nella mia storia. Nella mia sofferenza. In Dio.

Ma ogni credenza, col tempo, si è rivelata fragile, condizionata, instabile.

O era un’interpretazione, o una speranza, o una difesa.

Ora vedo che non posso credere in niente — non nel senso cinico del termine, ma nel senso più puro.

Non posso attaccarmi a un’idea, a un racconto, a un’immagine mentale.

Posso solo sentire.

Sentire ciò che accade qui, adesso.

Senza nome. Senza concetto. Senza filtro.

La mente può dire “questo è giusto”, “quello è sbagliato”, “questo è vero”, “quello accadrà”…

Ma ogni volta che lo fa, si allontana dal presente.

Si rifugia in una struttura.

In un’illusione di controllo.

Allora mi fermo.

Respiro.

E sento: che cosa c’è?

Un suono. Una tensione. Una nostalgia. Un battito. Un silenzio.

Questo è reale. Questo è vivo. Questo è l’unico terreno solido.

Non è una credenza. È presenza.

Postfazione — Nessuno da salvare

Chi ha davvero visto non cerca di convincere.

Non fa dottrina.

Non catechizza.

Non gioca con la paura per ottenere consenso.

Perché ha visto che non c’è nulla da difendere.

Che la verità non ha bisogno di parole forti, né di fedeli.

Non è una struttura da proteggere. È apertura. È vuoto. È libertà.

Chi sente il bisogno di “salvare gli altri”, spesso non ha ancora fatto pace con la propria confusione.

E così la proietta fuori.

Cerca conferme.

Costruisce un “noi” e un “loro”.

Pretende che gli altri vedano con i suoi occhi, e chiama questo amore. Ma non lo è.

L’amore vero è lasciare che ognuno trovi il proprio cammino.

È fidarsi che la verità sia già presente, in ogni essere.

Che non serve impiantare idee, ma solo testimoniare la semplicità di ciò che è.

Come dice Bankei:

“Tutti gli esseri viventi sono, per natura, perfetti così come sono.

La mente non nata è presente in ciascuno.

Non c’è nulla da correggere, nulla da ottenere.

Basta non allontanarsene.”

Allora non si parla per insegnare, ma per condividere.

Non si guida, ma si cammina insieme.

Non si impone, ma si illumina ciò che è già qui.

Nessuno da salvare.

Nessuno da convincere.

Solo vita che si riconosce in se stessa.