Questa sera voglio parlare del Caso 3 del Mumonkan, che riguarda un maestro Zen chiamato Gutei e il suo attendente. Vi leggo il racconto per cominciare…
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La particolarità dell’insegnamento di Gutei era che ogni volta che gli veniva fatta una domanda sullo Zen, lui semplicemente alzava un dito. Tutto qui. Nessuna spiegazione, nessun commento. Solo alzare un dito.
A un certo punto, il suo attendente cominciò a imitare questo gesto. Quando gli veniva chiesto cosa insegnasse Gutei, anche il ragazzo alzava un dito… Gutei viene a sapere di questo, chiama il ragazzo e gli taglia un dito, durissimo! L’attendente sta per andarsene, probabilmente dolorante, confuso e forse spaventato. Ma sente Gutei chiamarlo; si volta e vede Gutei alzare di nuovo un dito. In quel momento, sembra che il ragazzo si sia illuminato. Deve aver avuto una profonda intuizione.
Wow, riflettiamoci un attimo. Cosa sta davvero succedendo qui? Non sembra crudele? Un ragazzo imita il maestro e gli viene tagliato un dito? Oggi Gutei finirebbe probabilmente sotto processo. Ma nello Zen queste storie non vanno prese alla lettera. Sono fatte per tagliare strati di interpretazioni, per spogliarci dei condizionamenti che ancora ci separano dalla realtà.
Quando gli viene fatta una domanda, Gutei non spiega nulla. Semplicemente alza un dito: è tutto il suo essere in quel momento, presenza totale, risposta totale. Quel dito contiene tutto. Non manca nulla. Nessuna autocoscienza, nessun secondo pensiero, nessuno spazio tra vita e risposta. Nessuna separazione. Il ragazzo vede questo, ma copia solo la forma. Allora cosa ci dice questa storia? Possiamo davvero copiare qualcuno? Può un momento, un istante, un’azione di qualcuno essere replicata?
Di recente ho fatto alcune lunghe pedalate solitarie nelle prime ore del mattino e ho riflettuto/lavorato/praticato con questo koan. Credo che tutti abbiamo vissuto il pensiero che lo Zen sia qualcosa da capire. Qualcosa da afferrare, forse anche da raggiungere. Ti è mai capitato di dire “Ora ho capito, ho raggiunto lo Zen”? Forse imitando o replicando qualcosa che abbiamo sentito o letto. A me è successo molte volte. Penso che il ciclismo mi abbia aiutato a vedere che non c’è uno Zen da raggiungere, che in realtà non c’è neanche uno Zen. Raggiungere qualcosa, costruire qualcosa, è separazione, è dualità. Dov’è la separazione tra la salita, il sudore, il freddo, il respiro, la catena della bici? Dove avviene questa separazione? È una separazione reale?
Nel koan, Gutei non spiega, non insegna con le parole. Il ragazzo imita il gesto, ma manca l’essenza. Gutei vuole scuoterlo, perciò gli taglia il dito, taglia l’imitazione. Quando il ragazzo si volta e vede di nuovo Gutei alzare il dito, credo che finalmente veda. Non un dito. Non una risposta. Forse vede ciò che non si può dire? La completezza, l’unicità di ogni momento così com’è, senza mancare di nulla, anche se ora aveva 9 dita invece di 10? Quel momento era comunque completo, pieno, unico.
Il dito di Gutei per me è come l’atto di pedalare, respirare, sudare. Posso spiegarlo quanto voglio, posso parlare di geometria della bici, cadenza, potenza, fatica, gioia, ma… l’esperienza pura è solo nel fare. Non è teoria, non è imitazione. Non è nemmeno uno stato mentale. È ciò che sta già accadendo, quando non si aggiunge nulla, quando non si toglie nulla. Quando non provo, in qualche modo.
Il ragazzo ha imitato il dito di Gutei. Sono sicuro che sembrasse uguale, ma era solo un’imitazione.
Questa è una pericolosa tentazione che riconosco di avere, e forse tutti noi abbiamo, nella vita e nella pratica. Potremmo voler imitare. Abbiamo un intero vocabolario di frasi famose da usare: “just this,” “mente del non sapere,” “mu,” “non-sé.” Ci sediamo in un certo modo, parliamo in un certo modo, pensiamo di aver capito qualcosa.
Il ragazzo pensava di aver capito Gutei. Dopotutto, lo aveva visto centinaia di volte. Sapeva alzare il dito come il maestro. Pensava che quella fosse l’essenza dell’insegnamento. Ma mancava qualcosa di essenziale. Non era se stesso; cercava di essere qualcun altro, voleva replicare un momento che aveva visto, ma non possiamo farlo.
Penso che il ciclismo mi abbia dato questa consapevolezza, mi ha allenato. Le mattine fredde, le lunghe pedalate, la gioia di una salita, l’onestà della fatica, la solitudine apparente. Questi momenti spogliano l’illusione. La mia esperienza è che non posso imitare la pedalata precedente, il metro precedente, un altro ciclista, una temperatura calda quando fa freddo, una discesa quando la strada sale. Momento dopo momento, sono esattamente dove sono. Se resisto, se provo, se evito, diventa più difficile. Se accetto… qualcosa si apre.
Gutei vide il pericolo e tagliò l’attaccamento del ragazzo alla forma, letteralmente. Il ragazzo si era attaccato alla forma, a un’idea, non alla verità viva che si voleva esprimere. Quindi Gutei… tagliò il dito al ragazzo. Distrusse l’illusione.
Certo, nella nostra pratica non dobbiamo tagliare dita. Ma metaforicamente, la pratica dello Zen ci chiede di rinunciare a parti di noi a cui ci aggrappiamo. Le nostre idee di pratica. Le nostre identità spirituali. Le nostre storie, in generale.
Pensiamo alle cose che ripetiamo, ai modelli che imitiamo nella vita o nella pratica Zen. Come cantiamo? Come ci sediamo? Come parliamo? Come respiriamo? Siamo qui? Al 100%?
La nostra pratica prende vita solo quando smettiamo di copiare e cominciamo a vivere.
Come pratichiamo questo?
Rispondendo pienamente e immediatamente, senza autocoscienza. Fidandoci che il risveglio non sta nelle parole, nel pensiero, nel tentare, ma nell’esperienza vissuta.
La pratica non è complessa. Il dito di Gutei è la cosa più semplice al mondo. Ma perché vogliamo capire, pensare troppo, spiegare… ce ne perdiamo.
Possiamo permetterci di essere così diretti?
Ovviamente la nostra immediatezza non sarà quella di Gutei, ed è questo il punto. Forse è il silenzio. Forse è un respiro. Forse è un sorriso.
Come rispondiamo al mondo ora, in questo momento?
Come un koan Zen, il ciclismo non offre risposte definitive. Ma invita alla presenza. Non posso pedalare la pedalata di domani oggi. Non posso salire la prossima collina mentre sto ancora scendendo. C’è solo questa curva, questo momento.
Quando Gutei alzò il dito, non stava dando una risposta. Stava dando uno specchio. Un modo per vedere che non c’è niente da cercare, perché niente manca. Eppure, è la cosa più difficile da vedere. Tutti vogliamo sapere. Afferrare. Essere sicuri.
Il Buddha insegnò in modo molto simile quando mostrò un fiore ai suoi discepoli. Non disse nulla. Tutti tacquero, tranne Mahākāśyapa che sorrise semplicemente. In quel sorriso, il Buddha vide completa comprensione, risposta autentica e genuina. Gli altri si grattarono la testa cercando di capire, di elaborare. Forse qualcuno tentò di imitare il gesto come l’attendente di Gutei. Come sappiamo, quel momento segnò l’inizio dello Zen: trasmissione diretta e senza parole dell’intuizione. Nulla fu detto eppure tutto fu rivelato — la verità, la realtà al di là di ogni dottrina.
C’è un insegnamento nello Zen: “Quando cammini, cammina. Quando mangi, mangia.” Io aggiungerei: quando pedali, pedala e quando fai qualcosa, fallo semplicemente.
Grazie per aver ascoltato!
