Trascorrere due notti nei boschi è stata un’esperienza profondamente radicante, unendo attività fisica, studio contemplativo e connessione autentica. Il ritiro si è svolto in un luogo silenzioso nel Norfolk, dove, tra le altre cose, abbiamo costruito un dôjô immerso direttamente nella foresta—circondato da alberi imponenti, muschio, e i suoni gentili della natura. Il dôjô in sé era un tendone, non una struttura in legno, ma uno spazio creato all’interno del bosco vivo—un luogo per praticare, riflettere e incarnare la presenza nel cuore del mondo naturale.
Durante il ritiro, ho partecipato attivamente alla costruzione del dôjô, contribuendo con lavoro manuale alla creazione dello spazio. Il lavoro fisico di sgomberare il terreno, montare la struttura e preparare l’area mi ha messo in contatto profondo con la terra e con la comunità. Questo atto di creazione è diventato una metafora di come desidero manifestarmi: attraverso un’azione intenzionale e radicata, che onori sia le mie intenzioni interiori che il mondo vivente che mi circonda.
Nei momenti tra una sessione di costruzione e l’altra, camminavo nel bosco o mi riposavo sotto gli alberi. Nell’intreccio tra ortiche e foglie in decomposizione ho trovato un linguaggio per la mia stessa ricerca: l’ortica, con il suo pungiglione e la postura eretta, è diventata simbolo di vitalità e chiarezza protettiva; la foglia in decomposizione parlava invece di abbandono, rilascio e trasformazione silenziosa. Questi due elementi sono diventati per me la porta d’accesso al Trikāya.
Come parte del ritiro, ognuno di noi ha offerto un discorso di Dharma nel dôjô della foresta, condividendo le proprie riflessioni sul Trikāya—i tre corpi del Buddha. Questi sono: il Dharmakāya (corpo del Dharma), la realtà ultima—la natura di Buddha di tutte le cose, oltre la forma e il concetto, che mi piace percepire come il Grande Corpo Unico; il Sambhogakāya, il corpo di auto-godimento—una presenza divina e beata, dalle infinite forme e qualità radiose, percepibile in stati meditativi profondi o visioni; e il Nirmāṇakāya, il corpo di manifestazione—l’aspetto del risveglio che appare nel mondo quotidiano, insegnando e guidando attraverso l’azione concreta.
Nel mio discorso, ho riflettuto su come questi corpi non siano idee astratte, ma dimensioni vive che possono essere percepite direttamente. La foglia in decomposizione, nella sua silenziosa dissoluzione, mi ha parlato del Dharmakāya—la realtà informe e inclusiva in cui tutto ritorna. L’ortica, eretta e piena di energia, è sembrata il Nirmāṇakāya—azione chiara nel mondo, piena di forza, precisione, e persino pungente. Quanto al Sambhogakāya, l’ho sentito nella luce dorata che filtrava tra le fronde, nel silenzio condiviso, e in quei momenti fugaci di presenza beata—sottile, gioiosa, luminosa.
Questi tre corpi non sono separati. Si compenetrano. La foglia diventa terra, l’ortica cresce, la luce tocca ogni cosa. Anche noi siamo parte di questo continuo dispiegarsi.
Condividere questa riflessione con gli altri, e ascoltare a mia volta le loro, ha tessuto nel dôjô una profonda intimità. Il dôjô era diventato più di un luogo—era ormai un mandala di pratica, ascolto e manifestazione.
Ho lasciato il bosco, mentre si avvicinava una tempesta, sentendomi più integro e più intenzionale nel modo in cui desidero vivere: radicato come il suolo della foresta, flessibile come le foglie, e vivo di scopo—risvegliato al gioco dei tre corpi, e impegnato a portarli con me nel mio camminare, lavorare e parlare nel mondo.
