Qualche settimana fa abbiamo riflettuto sul kōan in cui il Buddha solleva silenziosamente un fiore, e solo Mahākāśyapa sorride. Quel sorriso, si dice, segnò la prima “trasmissione da mente a mente.” Niente parole, nessuna spiegazione — solo presenza.
Questa settimana torniamo a Mahākāśyapa, nel Caso 22 del Mumonkan, intitolato “Kashapa abbatte l’asta della bandiera.”
Ecco il kōan:
Ananda chiese a Kashyapa: “Il Beato ti ha dato la veste dorata. Ti ha dato anche qualcos’altro?”
“Ananda!” gridò Kashyapa.
“Sì, signore!” rispose Ananda.
“Abbatti l’asta della bandiera al cancello,” disse Kashyapa.
Tutto qui. Questo è il caso nella sua interezza.
A prima vista, è uno scambio breve e criptico. Ma per me indica qualcosa di essenziale nella pratica: l’immediatezza del risveglio, la chiamata a rispondere pienamente a questo preciso momento.
Ananda, l’assistente fedele del Buddha, noto per aver memorizzato ogni insegnamento, pone una domanda rivelatrice: “Ti ha dato anche qualcos’altro?”
Dietro a questa domanda sento un dubbio — forse perfino una nostalgia. C’è stato un insegnamento segreto che mi è sfuggito? Un’intuizione più profonda riservata solo a Kashyapa?
Ma Kashyapa non risponde con spiegazioni o rassicurazioni. Chiama semplicemente il suo nome. E Ananda, senza pensarci, risponde: “Sì, signore!”
Ecco. In quel momento, in quella risposta spontanea, senza calcolo — c’è la trasmissione. C’è il risveglio. È tutto lì.
Nessuna spiegazione. Nessun significato nascosto. Solo presenza. Solo risposta.
Poi arriva l’istruzione: “Abbatti l’asta della bandiera al cancello.”
Per me, l’asta rappresenta tutte le strutture a cui ci aggrappiamo: idee sull’illuminazione, sull’essere un buon praticante, sul “fare le cose nel modo giusto.” I ruoli, le identità, i dubbi — tutto questo. Kashyapa sta dicendo: lascia andare.
Buttalo giù.
Nella pratica, queste “aste” possono essere molto sottili. L’idea di essere un bravo allievo Zen, o la speranza che un’esperienza segni finalmente un risveglio — sono facili da portare con sé senza accorgersene. Ma ci appesantiscono. Ci impediscono di rispondere semplicemente, come fece Ananda, al momento così com’è.
Quando siedo in zazen, cerco di lasciar andare l’idea che sto facendo qualcosa di speciale. Siedo così come sono. Senza scopi, senza veste, senza asta. Solo il respiro, solo la gravità, solo il corpo. E anche quando pedalo, è lo stesso: a volte spingo, a volte rallento — ma sempre tornando a ciò che il momento effettivamente richiede, invece di inseguire un ideale.
Questo kōan mi ricorda che la pratica non è ottenere qualcosa. È rispondere adesso.
Quando la vita chiama il tuo nome — Ananda! — rispondi.
“Sì, signore!”
Tutto qui.
